La neurovendita. Come hai sviluppato questa teoria e perché? Soprattutto, in cosa consiste?
“Ho cominciato dopo qualche anno che lavoravo nella formazione commerciale e avvertivo il bisogno di fare e dire qualcosa di nuovo, di diverso. Mi trovavo a recitare copioni che non erano i miei. L’occasione arrivò quando un cliente mi chiese di sviluppare qualcosa che i suoi venditori non avevano mai sentito. Fu quella la molla che riportò la nostra azienda al suo grande amore: la ricerca neuroscientifica. Perché non tornare alle origini dei nostri studi e capire come applicare le conoscenze sul cervello alla comunicazione e alla comprensione del cliente? Il percorso è piaciuto e, dal 2012, la neurovendita è diventata un nostro brevetto”.
Hai dei risultati concreti che dimostrano la valenza della tua azione formativa?
“Ci siamo sempre posti l’obiettivo di misurare i risultati di quello che facevamo per cui la Neurovendita è uno dei pochi sistemi, se calata correttamente nei vari settori, che riesce a misurare l’aumento delle vendite. Il vero risultato, però, è una fidelizzazione molto forte del cliente, perché ci si rivolge a lui con una professionalità acquisita che altri non hanno. Sono vendite che restano, quelle sviluppate con una formazione di questo tipo. E ne abbiamo molti riscontri, in ogni campo in cui i nostri clienti le hanno correttamente applicate. La Neurovendita non è una manipolazione ma un elevamento degli standard di comunicazione e un miglior rapporto tra chi vende e chi compra, che deve essere felice di aver fatto delle buone scelte”
La ristorazione è un settore molto particolare in Italia: pur essendo un comparto che, nel suo complesso, è in crescita da diversi anni vede anche molte chiusure di locali. Questo è dovuto a una scarsa professionalità derivante dal fatto che non c’è una visione imprenditoriale strutturata. Anche qui c’è un bisogno forte di formazione. La Neurovendita verso questo comparto a cosa può servire?
“Innanzitutto un dato: la maggioranza delle nuove PMI, in cui i ristoranti rientrano appieno, resta aperta non più di tre anni. Questo ci offre la dimensione del fatto che in Italia fare impresa è molto difficile. Il ristorante, in questo scenario, ha un livello di complessità ancor più elevato: è un mondo di prodotti, di servizi, di marketing. Per cui chi apre improvvisando non può che avere una vita difficile. Come può aiutare la Neurovendita? Evidenziando alcuni aspetti: lo spazio di attenzione delle persone oggi è molto basso perché oggetto di pressanti sollecitazioni, quindi aprire un ristorante presuppone, prima di ogni altra considerazione, un posizionamento molto chiaro dell’offerta, del perché viene scelto, che specializzazione ha. Oppure affrontare tematiche tipo la lunghezza del menu: oggi sappiamo che le nostre capacità decisionali sono in grado di elaborare un massimo di sette più due elementi, per cui menu troppo lunghi corrono il rischio di ridurre l’attenzione del cliente. Infine l’interesse sulla forza esperienziale che offre il ristorante: qual è l’esperienza che si vuole trasmettere? In questo caso non rientra solo cucina e location bensì accoglienza. Quindi personale di sala, quello che vende”.
Questo è il problema vero di questo momento: perché tra pochi anni ci saranno molti cuochi disoccupati, anche per la tecnologia che avanza, e poche persone che faranno servizio di sala, che è invece un mestiere che non potrà essere sostituito dai robot. Come possono essere d’aiuto le tecniche di neurovendita?
“Anche qui un dato per inquadrare il problema: in Italia, oggi, ci sono più di 400.000 posti vacanti per personale non presente o non professionalmente qualificato. Questo è un Paese che non connette scuola e mercato del lavoro. Basti pensare, per fare un esempio, che il numero di avvocati che ha, da sola, la città di Milano è pari o superiore a tutti gli avvocati della Francia. Tolta questa digressione , tornando alla ristorazione e in particolare al personale di sala, occorre cominciare a cambiare la percezione di questo lavoro rendendolo attrattivo. Come è avvenuto, negli ultimi dieci anni, prima non era certo così, per il cuoco. Quando cambi la percezione il cervello la rende immediatamente seducente. Se sei un portapiatti allora diventa un riempitivo mentre faccio dell’altro, se invece il personale di sala diventa l’immagine del ristorante, è colui che si relaziona con i clienti, che conosce le lingue straniere, che sa raccontare l’esperienza che attende, allora la professione diventa attrattiva. Poi, come hai detto tu, il servizio in sala è fatto di creatività, di empatia, di relazioni che non potrà mai fare un robot. Ci hanno provato delle catene di ristorazione nel 2016, il risultato è stato misero e l’esperimento è finito prima che arrecasse danni irreversibili. Quindi questa è una professione che avrà un futuro certo! Bisogna renderla attrattiva ed economicamente vantaggiosa”.
Come si può fare?
“Fornendo loro gli strumenti. Ad esempio il rituale dell’accoglienza: non può essere una cosa improvvisata, a uno stringi la mano, ad un altro no. Crei subito delle discriminanti che il cliente vede. Va invece definito in modo professionale, perché sappiamo che una buona accoglienza aumenta l’ossitocina nel cervello, che è l’ormone delle relazioni, che ha un impatto sul rendere immediatamente positiva o negativa l’esperienza che ci appresteremo a fare. Cosa si fa su questo tema? Come viene presentato un piatto? Esiste la capacità di vendere i piatti più cari associandoli al più buono? Dove c’è un servizio adeguato la qualità è straordinaria e le vendite ne beneficiano”.
La presentazione dei piatti o dei vini presuppongono un linguaggio che molte volte è solo per gli addetti ai lavori. Come si può modificare questa tendenza che è tutto fuorché accattivante?
“Al ristorante si va per stare bene, vivere un momento di assoluta spensieratezza. Se invece
devo creare uno sforzo ottengo il risultato contrario. Molti studi dicono che la semplicità del linguaggio è sempre vincente, che bisogna spiegare le cose come se avessimo davanti un bambino di nove anni. L’unica eccezione a questa regola vale per il rapporto con i professionisti, ma la clientela di un ristorante non è fatta, in massima parte, dai sommelier. Parlare chiaro e semplice non è facile, perché bisogna adeguare il pensiero e conoscere veramente la materia, ma è fondamentale imparare a farlo, se si vuole ottenere il risultato sperato: far felici i clienti! Ci sono alcune parole adeguate, che sono attrattori cerebrali, che si devono riflettere in una storia di trenta secondi, purché assolutamente vera!”
Un altro tema è l’abbigliamento del personale di sala: ha ancora un senso la camicia bianca e il pantalone nero?
“Torniamo all’identità. Devi chiederti sempre cosa vuoi comunicare al cliente. Non c’è un abbigliamento corretto, c’è un abbigliamento pensato per quel tipo di ristorante. All’abbigliamento seguono altri fattori: il nome di chi sta facendo il servizio, ad esempio. Non sappiamo quasi mai come si chiamano le persone che lavorano in sala, mentre sappiamo tutto del cuoco. Va cambiata questa regola, proprio per dare una vera identità al ristorante dove abbiamo scelto di vivere l’esperienza. Tutto deve essere pensato, senza lasciare al caso le azioni, per favorire l’esperienza che vivono le persone. Oggi è difficile categorizzare le persone secondo dati oggettivi, reddito, sesso ecc… e questo è l’errore più comune che si fa al ristorante”.
Chi dà queste indicazioni?
“Dovrebbe essere l’imprenditore. Chiedersi perché i clienti dovrebbero andare da lui. Questa domanda impone delle scelte e spesso, in Italia, l’errore più comune è quello di voler piacere a tutti. Se c’è una cosa che insegna la neurovendita è che questo atteggiamento non porta risultati. Le scelte devono sempre essere molto nette e chiare, pensate per l’esperienza del cliente. Aprire un ristorante solo perché si sa cucinare non è più sufficiente”.
Sono solo alcuni dei consigli che Lorenzo Dornetti ha dispensato e che racconta durante le sue lezioni, sempre straordinarie.