Businessmen shaking hands during a meeting.
Negoziare non è un duello. Non è nemmeno un’arte innata. E’ l’applicazione faticosa di tecniche e principi. L’etimologia lo dice chiaro: dal latino, negoziare significa “assenza di ozio”. È un lavoro duro, che chiede energia, concentrazione, intelligenza relazionale. Forse è per questo che tanti lo vivono come un braccio di ferro: qualcuno vince, qualcuno perde. Ma la scienza ci racconta un’altra storia. La premessa è semplice: negoziamo sempre, anche quando non ce ne accorgiamo. Con i clienti e i fornitori, con i colleghi e i collaboratori, persino a casa. Possiamo improvvisare, oppure scegliere di farlo con metodo. Ed è il metodo che fa la differenza: applicare tecniche precise aumenta fino al 30% le probabilità di arrivare a un accordo win-win, che non solo chiude la trattativa ma tiene in piedi la fiducia.
Harvard se n’è accorta più di quarant’anni fa, lanciando il Program on Negotiation. Uno studio ambizioso: osservare centinaia di trattative, seguirle nel tempo, capire cosa accade davvero oltre la superficie. Il libro Getting to Yes di Roger Fisher, William Ury e Bruce Patton ha raccolto quell’enorme patrimonio di dati e l’ha tradotto in un modello semplice e potente. Da allora, il modello di Harvard è diventato la mappa, capace di guidare nel labirinto della negoziazione.
Separa la persona dal problema. Il primo principio sembra banale e invece è il più tradito: separare la persona dal problema. Un “sei disordinato” attacca l’identità e chiude il dialogo. Un “rischio di inciampare, troviamo un posto per le scarpe” sposta la luce sul problema e salva la relazione. Basta cambiare prospettiva, ed ecco che il conflitto si scioglie.
Focus sugli interessi. Poi ci sono gli interessi, nascosti dietro le posizioni dichiarate. I due fratelli che litigano per un’arancia sembrano destinati a spaccarla a metà, un compromesso equo ma sterile. Solo quando svelano i loro veri bisogni, uno vuole la polpa, l’altro la scorza, trovano la soluzione perfetta. Entrambi ottengono tutto, nessuno si sacrifica. Questa è l’essenza della soddisfazione.
Usa criteri oggettivi. Il terzo principio impone di portare criteri oggettivi al tavolo. Senza di essi, la trattativa si riduce a un conflitto di opinioni. Con essi, diventa cooperazione. È la differenza tra accusare il proprietario di “speculare” su un affitto e sedersi insieme a verificare i prezzi medi nella zona. I numeri diventano terreno neutrale, un linguaggio comune che sostituisce il sospetto con la logica.
Il quarto pilastro è la creazione di opzioni. Quante volte ci ostiniamo a mettere sul tavolo una sola proposta? Così la trattativa diventa un gioco di vincitori e vinti. I negoziatori esperti, invece, portano alternative. Non solo “Grecia in agosto”, ma “Grecia in agosto, Sicilia a luglio, Croazia a settembre”. Stesso budget, stesso orizzonte, più possibilità di incontro. È la forza del metodo MESO: moltiplicare le strade senza cambiare la destinazione.
Chiudi con chiarezza. Infine, c’è il tema della chiarezza sui limiti e sulle alternative: ZOPA e BATNA. La prima è la zona di possibile accordo, il perimetro realistico in cui le parti possono muoversi. La seconda è il miglior piano B, la via d’uscita se l’accordo non arriva. Un motorino a 8.000 euro può sembrare caro, ma se so che altrove costa 7.500, quella diventa la mia BATNA. Una bici in vendita a 250 euro, con un’offerta a 200, crea una ZOPA ben precisa: il terreno su cui decidere.
Negoziare significa unire metodo e controllo emotivo. Ma quanti di noi, nella vita di tutti i giorni, violano questi principi? Con clienti, colleghi e fornitori, quante volte confondiamo le persone con i problemi, ci irrigidiamo sulle posizioni, ci affidiamo solo a opinioni, portiamo al tavolo una sola opzione o ci muoviamo senza un piano B? Riconoscerlo è il primo passo per cambiare prospettiva. Perché, come ricorda Chester Karrass, non otteniamo ciò che meritiamo, otteniamo solo ciò che riusciamo a negoziare.